Psico oncologia che cosa è?

La Psico oncologia si occupa delle reazioni emozionali dei pazienti con tumore, dei loro familiari e dello staff coinvolto nel percorso di cura, ed è focalizzata sulle variabili psicologiche, sociali e comportamentali che influenzano la prevenzione, l’aderenza ai trattamenti terapeutici e la qualità di vita.

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La Psico oncologia si pone dunque come disciplina specifica “di collegamento” tra l’area oncologica e quella psicologico-psichiatrica nell’approccio al paziente con tumore, alla sua famiglia e all’équipe che di questi si occupa. Il Psico oncologo è colui che ti aiuta in questo percorso.

Curare un paziente oncologico, infatti, non significa soltanto debellare il cancro, ma essere attenti a tutti gli aspetti che questa malattia comporta; è necessario provvedere a mantenere in “buona forma” il corpo, la mente, lo spirito, le competenze socio-relazionali. Tutto questo per essere realizzato ha bisogno di una organizzazione complessa basata sul lavoro di una équipe pluridisciplinare; un intervento psicologico inizia dunque dalla prima accoglienza, quando si conosce il paziente oncologico, che deve essere compreso nella sua totalità e non solo come “malattia”; nel primo incontro si pongono le basi della futura relazione con il paziente e quindi della qualità dell’assistenza/cura/riabilitazione del paziente e della sua famiglia.

Aspetti psicologici della malattia oncologica

Ogni paziente vive e affronta la malattia in modo soggettivo: si attiva un processo di adattamento che comporta una trasformazione radicale nella sua esistenza.

I sentimenti suscitati sono molto intensi, come un senso di irrealtà, diniego, incredulità, disorientamento, rabbia. In seguito diverse domande invadono la mente del paziente: “Perché è successo proprio a me?”, “Cosa mi accadrà adesso?”, “Sarò in grado di affrontare la malattia?”. 

Il modo di reagire al proprio stato di salute o di malattia, così come lo sviluppo, il decorso e la prognosi stessa della malattia oncologica sono influenzati dall’interazione di diversi fattori: di tipo biologico, psicologico e sociale.

La comunicazione della malattia tumorale rappresenta uno degli eventi più stressanti che alcune persone si trovano a dover affrontare nel corso della loro vita, un cambiamento non solo fisico ma anche mentale: cambia il modo di percepire e sentire il proprio corpo, cambia la percezione che si ha del mondo, cambiano le relazioni sociali e interpersonali. Si tratta di una fase molto delicata e difficile sia per il paziente che per i suoi familiari: di fronte alla parola “cancro” la primissima reazione è avvertire un senso di confusione, sbandamento, un vero e proprio shock.

Il cancro è una parola che evoca emozioni angoscianti, rimanda a uno scenario altamente catastrofico nell’immaginario collettivo, ad una “condanna a morte”.

Il modo di gestire la “crisi emotiva” generata dalla diagnosi medica, l’atteggiamento di fronte all’evento spesso traumatico influenzerà il tipo di adattamento psicosociale alla malattia.

L’atteggiamento e la modalità con cui si fronteggia la malattia utilizzati andranno ad influenzare non solo la qualità di vita successiva alla diagnosi, ma anche il grado di collaborazione che il paziente presta nel seguire più o meno i trattamenti medici e il decorso biologico della malattia.

colloquiare con malato cancro

Perché parlare con uno Psico oncologo

Chi si ammala di tumore spesso tace la propria sofferenza o ne parla senza comunicarla pienamente, dando per scontato che essa sia normale rispetto alla situazione che sta vivendo. Si tratta di un equivoco che può influenzare negativamente la qualità di vita e la possibilità di trovare le risorse emotive per far fronte ad essa.

Dati provenienti da studi italiani e internazionali indicano che una percentuale tra il 30% e il 40% dei pazienti oncologici soffre di livelli significativi di disagio emozionale, ma meno del 10% riceve un intervento specialistico. Quanto rilevato appare preoccupante in quanto il tumore modifica la vita delle persone e ha un forte impatto sul piano esistenziale, psicologico e sociale.

A volte l’aiuto offerto dai medici, dagli infermieri e dai familiari è sufficiente a supportare la persona nel percorso di adattamento. Altre volte, tuttavia, reazioni di ansia, demoralizzazione, problemi del sonno, difficoltà nella vita sessuale, di coppia e familiare eccedono le capacità cognitive e comportamentali di adattamento e in alcuni casi permangono anche al termine delle terapie.

Un supporto specialistico può essere, in questi casi, importante per favorire il miglior adattamento possibile al percorso oncologico.

Lo psico oncologo può fare molto all’interno dell’équipe medica, riconoscendo i bisogni del paziente e aiutandolo ad affrontare il grande percorso di cambiamento fisico e psicologico che dovrà inevitabilmente affrontare con la malattia. In una prima fase di  sostegno psicologico il paziente viene aiutato a elaborare il trauma conseguente alla diagnosi di tumore e a sostenere il “peso della malattia”, con l’obiettivo di:

– contenere l’ansia e le emozioni negative mantenendo un equilibrio psicologico;

– mobilitare meccanismi di difesa adeguati;

– favorire la comunicazione e l’espressione delle emozioni negative.

Il modo migliore di aiutare il paziente ad affrontare e superare lo shock iniziale sarà quello di rispettare i tempi soggettivi di accettazione della diagnosi medica, sostenendo e accogliendo le paure, i timore, i dubbi iniziali del paziente che, una volta superata la fase iniziale di disorientamento, potrà avviare un percorso di elaborazione/integrazione della malattia nella propria esperienza di vita, fino ad arrivare ad una piena consapevolezza e accettazione della patologia.

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In questa fase lo psico-oncologo potrà aiutare il paziente a gestire la malattia, a incoraggiare l’espressione e la comunicazione delle emozioni coinvolgendo anche i familiari, a sviluppare modalità più adattive di affrontare la malattia, a dare un senso a quanto accaduto, a ridare un senso di speranza e ottimismo verso il futuro.

La Psico oncologia pediatrica

La portata traumatizzante dell’evento cancro è ancora più dirompente quando riguarda un bambino. La psico oncologia pediatrica ha come finalità il benessere psico-fisico dei malati di cancro in età evolutiva, con un’attenzione specifica agli aspetti della malattia che possono interferire con lo sviluppo dei piccoli pazienti. E’ oggetto di attenzione anche l’ambiente familiare del paziente oncologico ove la malattia ha ripercussioni decisamente non trascurabili.

Tra gli effetti psicologici vi sono problemi di autostima legati al cambiamento del proprio aspetto fisico, angosce di morte (sopra gli 8-9 anni di età) e sindrome della spada di Damocle (timore di recidive), allucinazioni ed effetto Alien (percezione di distruzione dall’interno), isolamento, aggressività, squilibri nei rapporti familiari.

Nell’intervento psicologico a sostegno di bambini e famiglie, ci si trova di fronte persone che generalmente non presentano una patologia psichiatrica, ma stanno vivendo una situazione traumatica, che altera l’equilibrio preesistente e può ostacolare il normale sviluppo psicofisico del bambino. In alcuni casi invece, la diagnosi oncologica può far emergere aspetti psicopatologici precedentemente compensati.

L’obiettivo di un intervento di psico-oncologia pediatrica è favorire l’integrazione di questa esperienza, benché penosa, nella storia e nell’identità individuale e familiare, allo scopo di salvaguardare la qualità della vita presente e futura, prevenendo per quanto possibile, gli effetti psicologici collaterali a medio e lungo termine.

Psico-oncologia della famiglia

Perché il percorso di cura sia efficace, sia in caso di prognosi positiva che di esiti infausti per lo Psico-oncologo è fondamentale prendersi cura anche delle famiglie delle persone con diagnosi di malattia oncologica.
Perché la famiglia? Perché agisce come prima linea di supporto emozionale e nello stesso tempo, costituisce, insieme al paziente, un’unica unità che richiede cure, attenzioni e supporto.
E’ attraverso forti sentimenti di angoscia, di incredulità, di paura, di disorientamento e spesso anche reazioni di negazione che il sistema familiare comincia lentamente a ridefinire i propri confini interni ed esterni, a riorganizzare ruoli, funzioni e competenze tra i vari sottosistemi, cercando di realizzare il migliore livello possibile di adattamento richiesto dalla situazione di crisi in cui si trova.
Un nuovo adattamento è possibile se sono disponibili risorse psicologiche e familiari (ad esempio, lo stile comunicativo) e supporto sociale.

Sulla base di quanto detto risulta importante che le strutture sanitarie prevedano degli interventi terapeutici sulla famiglia con malato grave e/o cronico garantendo contemporaneamente il benessere emotivo di tutti i membri, paziente compreso; laddove dovesse mancare questo Servizio nel pubblico, è opportuno che la famiglia si rivolga a un professionista privato con competenze in Psico-oncologia.

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L’adolescenza è il passaggio dall’infanzia all’età adulta ed è normalmente caratterizzato da quella fase definita come crisi adolescenziale.

L’adolescente si sente intrappolato in un tempo da cui teme di non uscirne mai più, soffre la perdita di punti di riferimento e non è ancora in grado di godere delle sue nuove conquiste e della sua nuova identità.

Deve elaborare il lutto da separazione nei confronti degli oggetti di investimento infantili, in primo luogo verso le figure genitoriali, per potersi rendere autonomo da loro ma, allo stesso tempo, ha segretamente bisogno del riconoscimento dell’adulto per sentirsi veramente autonomo. Questa necessità dà luogo a comportamenti contraddittori che vanno da moti di indipendenza e ribellione all’autorità degli adulti, a richieste regressive di attenzione.

l'adolescenza

Adolescenza periodo di cambiamenti

L’adolescenza è un periodo complesso, una fase di cambiamento a livello psicologico, fisico e sociale. Una serie di sfide si aprono agli occhi dei ragazzi e anche dei loro genitori, che vivono questa fase con angoscia e preoccupazione per i figli che crescono.

L’adolescente deve accettare il corpo che cambia con la pubertà, definire la propria identità e costruire un’immagine del sé adulto, acquistare maggiore indipendenza e gestire nuovi vissuti ed emozioni.

Si apre un mondo fatto di nuove relazioni, amicizie e prime esperienze di relazione intima che veicolano verso la scoperta della sessualità.

È quindi una fase che destabilizza l’individuo, spesso caratterizzata da inquietudini e difficoltà che, se non correttamente risolte, possono portare all’insorgenza di disagi anche gravi. Aiutare gli adolescenti ad affrontare questi cambiamenti non è sicuramente facile anche per l’estrema conflittualità che mostrano verso molte realtà.

Ma cosa significa essere adolescenti in un’epoca caratterizzata da frammentazioni familiari e crescente individualismo? Perché oggi i genitori sono confusi di fronte ai figli adolescenti, che usano linguaggi forti e contraddittori, non sempre facili da comprendere?

Quando si manifesta nell’adolescente umore depresso, rabbia, tristezza e chiusura, oppure un’azione violenta verso se stesso o verso gli altri è bene fermarsi, e chiedere aiuto ad un professionista che può offrire uno spazio protetto e non giudicante a tutta la famiglia, e lavorare con loro per ristabilire comprensione ed armonia.

Il ruolo dei genitori

I genitori vivono la fase adolescenziale con paura, con fatica ad accettare che il proprio figlio diventi grande e sono spesso accompagnati da senso di colpa davanti alle sue difficoltà.

Mamma e papà devono sostenere i loro figli nella sperimentazione della propria autonomia, pur mantenendo una posizione ferma sulle regole e i principi da rispettare. Devono essere una presenza silenziosa ed empatica in grado di sostenere il figlio nelle difficoltà, rispettare i suoi tempi, i momenti di crisi e quelli di inspiegabile euforia.

L’adolescente ha ancora bisogno della sicurezza familiare, anche se cerca di negarla, quindi essere presenti ma non invadenti è importante.

Costruire una relazione basata sulla fiducia, sul riconoscimento e espressione delle emozioni, sul sostegno in difficoltà e sulla definizione di “no” chiari e fermi già nell’infanzia, è un buon punto di partenza per affrontare la fase del conflitto e del rifiuto.

Conoscere i segnali e imparare a interpretarli permette di discriminare normali condotte da campanelli di allarme e riuscire a intervenire tempestivamente in caso di serio rischio.

Attenzione dunque ad una serie di segnali che, pur non essendo esaustivi, vengono qui riportati a titolo di esempio:

  • iperattività o costante ed eccessiva mancanza di volontà, sonnolenza continua (può essere il segnale dell’uso di sostanze stupefacenti)
  • Umore depresso, basso rendimento scolastico ed elevato numero di assenze a scuola, fobie/paure, sintomi da stress, problemi psicosomatici come continui mal di testa, mal di pancia, disturbi del sonno, enuresi (potrebbe essere sottoposto a fenomeni di bullismo)
  • l’indossare vestiti lunghi e coprenti anche se non necessario (può indicare pratiche di autolesionismo, come piccoli tagli o bruciature che si tentano di nascondere)
  • trascorrere molto tempo chiusi in bagno, specialmente dopo aver pranzato/cenato (può essere legato ad un disturbo alimentare, bulimia/anoressia)

I problemi degli adolescenti: cosa fare?

Quali sono le problematiche legate all’adolescenza? E, soprattutto, come interpretare e gestire alcuni comportamenti?

Immaturità della corteccia prefrontale

Vi sono motivi neurofisiologici di alcuni comportamenti tipici dell’adolescente, come per esempio la tendenza a dire bugie o l’incapacità di valutare le conseguenze di alcune azioni.

Le recenti scoperte in neuroscienze hanno evidenziato alcuni aspetti della maturazione cerebrale degli adolescenti che, fino a poco tempo fa, non erano stati identificati.

Quella che da sempre viene considerata una fase di crisi, una sorta di blackout da cui i genitori vorrebbero uscire il prima possibile, è quindi in realtà solo una tappa dello sviluppo come le altre, caratterizzata da fragilità e criticità ma anche da molte opportunità.

I comportamenti dell’adolescente non sono, infatti, dettati da un subbuglio ormonale ma da un’immaturità della corteccia prefrontale che, secondo le recenti scoperte, non ha ancora concluso completamente il suo sviluppo.

La corteccia prefrontale è la parte del cervello che regola molti aspetti della nostra vita mentale: la capacità di progettare e pianificare, di valutare le conseguenze delle proprie azioni, di agire con responsabilità. Chiunque abbia a che fare con un adolescente, quindi, non può prescindere dal prendere in considerazione questa immaturità e dall’interpretare alcuni comportamenti come conseguenze di questo stato.

I rapporti con i coetanei

I genitori di un adolescente restano facilmente sconcertati dai cambiamenti improvvisi che questa fase porta con sé.

Per esempio, di punto in bianco un adolescente può non aver voglia di uscire con i genitori, può iniziare ad allontanare mamma e papà per favorire, invece, i rapporti con i coetanei.

In questa fase si assiste a un intensificarsi dei vissuti sociali, dei rapporti che gli adolescenti vivono con i pari. L’adolescente vive un fermento emotivo, una nuova intensità nelle emozioni.

Tutto ciò lo porta a voler sperimentare le relazioni intensamente e i rapporti con i coetanei assumono una nuova importanza perché l’adolescente ha voglia di giocarsi tutto questo desiderio di intensità emotiva.

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Le bugie

Gli adolescenti sono capaci di raccontare incredibili ed enormi bugie, di elaborare racconti degni di una sceneggiatura cinematografica. A tutto ciò c’è una spiegazione scientifica.

L’immaturità della corteccia prefrontale apre a una grande capacità creativa. Questa potenzialità creativa viene spesso utilizzata dall’adolescente per scopi non proprio nobili, per esempio per inventarsi memorabili bugie. L’adolescente non è cattivo e non si comporta in modo scorretto per fare impazzire il genitore o per farlo soffrire. È la sua immaturità a impedirgli di fare altrimenti.

Qui, però, i genitori possono svolgere un ruolo importante: permettergli di accedere e usare tutta questa creatività ma in un contesto che preveda apprendimento, per non giocarsi un’opportunità simile, per esempio, nelle bugie.

Incapacità di pianificare

Come può fare un genitore a inserire questi cambiamenti e questa immaturità in un contesto non rischioso per il figlio, sostenendo il cambiamento da un punto di vista educativo?

È necessario che i genitori lascino all’adolescente la possibilità di sperimentare le sue relazioni ma in una cornice di regole che lo aiutino a muovere un comportamento senza grossi rischi. È fondamentale che queste regole siano sempre negoziate con i figli, però.

È altresì cruciale aiutare l’adolescente a organizzarsi, perché ancora immaturo per farlo da sé. La capacità di pianificare è una pretesa del genitore ma questa fase prevede che l’adolescente sia sostenuto, per esempio all’interno di una pianificazione scolastica.

Continua ricerca del conflitto con l’adulto

Gli adolescenti cercano in continuazione il conflitto con gli adulti. E tutto ciò è indispensabile per la loro crescita, dunque il conflitto è fortemente necessario.

L’adolescente esercita il conflitto con i genitori perché ha bisogno di rompere l’incanto infantile, di staccarsi dalle figure di riferimento che fino al giorno prima erano idealizzate, erano gli unici riferimenti possibili (la mamma e il papà).

Gli adolescenti hanno bisogno di prendere in mano la loro vita e, per farlo, devono rompere quel legame. Senza conflitto, non riescono a farlo.

Di fronte a una necessità del genere, cosa possono fare i genitori?

Il consiglio è di far convergere l’aspetto educativo dell’adolescenza sulla figura paterna o, comunque, usare un codice paterno. Quest’ultimo è regolativo ma incoraggia anche a sperimentare, a “lanciarsi” nel mondo. Invece, il codice materno tende a trattenere il figlio nell’infanzia, a rassicurare e a custodire.

È anche per questo motivo che il conflitto nell’adolescenza è più accentuato nei confronti della madre. In questo momento della crescita è importante avere anche altre figure di riferimento, come un allenatore o i professori, che rappresentino altri punti di vista e che non facciano sentire il genitore sempre solo e in primo piano nell’educazione del figlio.

Le opportunità

L’adolescenza non è solo litigio, conflitto e sofferenza. Anzi, lo è ma il suo “codice” di espressione e di comunicazione nasconde anche molte opportunità. Per esempio, le neuroscienze hanno evidenziato che nell’adolescenza si amplificano le capacità cognitive, si potenzia la memoria, si impara più facilmente e più rapidamente.

Questa enorme opportunità, però, può portare ad apprendere ciò che è sbagliato. Per sfruttare in modo costruttivo un tale stato di grazia, è bene che gli adolescenti possano fare esperienza di situazioni positive, di esperienze di qualità per “mettere insieme tutti i pezzi”, per unire creatività e apprendimento in modo organizzato.

 

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Si dice che le adozioni  siano l’incontro di due mancanze: quella di un bambino senza genitori, e di una coppia che non può avere figli.

Il desiderio di adottare, infatti, nasce per lo più da una limitazione biologica, la sterilità, che spinge la coppia a ricercare modi alternativi per soddisfare il proprio bisogno di avere bambini.

L’istituto giuridico per le adozioni, tuttavia, risponde fondamentalmente al bisogno del minore di vivere in una famiglia che lo accolga e lo ami e non a quello dei genitori di avere un figlio.

I diritti del bambino e il percorso dei genitori nelle Adozioni

E’ infatti diritto del bambino vivere con una mamma e un papà che sappiano curarlo, proteggerlo, dargli sicurezza e affetto. Un bambino adottato, inoltre, avrà bisogno di avere accanto due genitori che sappiano proporsi come figure in grado di aiutarlo a elaborare e riparare le ferite delle quali è portatore.

I coniugi che si avvicinano alle adozioni dovranno perciò essere disposti a fare un percorso psicologico che li porterà ad approfondire le loro motivazioni, i loro desideri, e le zone d’ombra della loro vita. Solo attraverso questa strada, infatti, saranno pronti ad accogliere e dare risposta ai bisogni di un bambino portatore di una storia dolorosa e spesso traumatica.

Se non saranno stati in grado di risolvere le problematiche legate alla loro vita e alla loro storia, e a dare un senso al loro dolore, difficilmente saranno in grado di aiutare un figlio a risolvere le proprie e a sostenere la sua sofferenza, di conseguenza ad affrontare al meglio le adozioni.

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La sterilità

La sterilità rappresenta sempre un evento traumatico che mette in crisi e limita i propri progetti di vita. La scoperta di non poter avere figli destabilizza e costringe a dare un senso a ciò che è accaduto, a rivisitare la propria vita alla luce di una realtà imprevista e indesiderata, e costringe a rinunciare al figlio senza volto e senza nome che ciascuno ha inconsciamente conservato dentro di sé.

Per questo motivo la scoperta della sterilità si configura come un vero e proprio lutto, e come tale va affrontato.

L’elaborazione del lutto della sterilità è una fase indispensabile e imprescindibile nel percorso adottivo. Essa non viene affrontata ed elaborata una volta per tutte, ma si risolve poco per volta, in un percorso che può durare anni e proseguire anche dopo l’arrivo del figlio nella propria famiglia.

Saper gestire le emozioni e i sentimenti connessi a questo lutto, tuttavia, diventa un requisito indispensabile per poter dare risposta ai bisogni affettivi ed emotivi di un bambino che viene in casa con un bagaglio, spesso pesante, di traumi, dolori e privazioni.

La coppia

La qualità della relazione di coppia costituisce un fattore fondamentale per una prognosi positiva nella relazione adottiva. Una coppia solida, abituata al dialogo e al confronto, capace di sostenersi, saprà fornire sufficiente stabilità ad un bambino che ha bisogno di costanza, sicurezza e molto amore.

L’adozione non è un modo per riempire vuoti che ci sono all’interno delle coppie, l’adozione non è obbligo, non è qualcosa che si fa senza sentirlo al cento per cento, l’adozione è un vero e pieno gesto d’amore, è un modo per generare una famiglia, dandola a qualcuno che magari fino a quel momento l’ha solo sognata; adottare un bambino è per la coppia mettere in atto un progetto d’amore che apre i coniugi ad una dimensione relazionale non solo duale, ma di comunione, di vera e profonda socialità.

Per una coppia che vuole adottare un bambino, lavorare sulla relazione per renderla sempre più autentica e profonda sarà tempo ben utilizzato, durante tutta la fase dell’attesa e dopo l’arrivo del figlio.

Le aspettative

Può capitare che esistano, da parte dei futuri genitori adottivi, aspettative eccessive riguardo il figlio. La coppia immagina un bambino consapevole del suo bisogno di ricevere cure e affetto, o relativamente facile da gestire. Anche quando mette in conto la comparsa di problematiche nella relazione con il figlio adottivo, ritiene di riuscire a superare le difficoltà in modi relativamente semplici.

Il bambino adottato invece arriva in famiglia con un vissuto di perdita che ha creato delle ferite emotive e mentali importanti.

E’ necessario che i genitori sappiano integrare le componenti emotive legate alla delusione e alla mancata soddisfazione delle fantasie e dei desideri, che sono legate, per lo più:

  1. alla fantasia che il genitore fa su di sé come educatore capace di risolvere magicamente le difficoltà della relazione educativa con il proprio figlio;
  2. all’immaginario che ciascun genitore si è formato rispetto alla personalità del bambino.

Il rischio è quello di sviluppare meccanismi di difesa legati all’evitamento del dolore e della delusione. Se i genitori riescono a integrare queste componenti nella loro vita possono aiutare il figlio a fare altrettanto. Anche lui infatti arriva in famiglia con una serie di fantasie conseguenti ai vissuti precedenti all’adozione e ad aspettative che potrebbero causargli frustrazione e ulteriore sofferenza.

Gli operatori dei Servizi Sociali, gli Psicologi, le Associazioni di genitori adottivi e le Associazioni adozioni, gli avvocati e i docenti della scuola dell’infanzia e primaria rivestono, nella realtà dell’adozione, una importante risorsa per le famiglie e per i bambini; è importante che essi possano infatti incentivare lo sviluppo da parte dei genitori e del figlio adottivo di quei fattori di protezione che vanno a favorire una buona riuscita del percorso adottivo e l’integrazione del bambino nella nuova famiglia.

adottare un bambino

Quali sono le caratteristiche del bambino adottivo?

Il bambino adottato, inserendosi nella famiglia adottiva, porta con sé un bagaglio di esperienze che l’hanno formato e ne condizioneranno lo sviluppo futuro.

Egli, infatti, ha vissuto uno dei traumi più importanti che un bambino possa sperimentare: la perdita delle figure primarie di accudimento, che avrebbero dovuto costituire per lui, per diritto biologico, garanzia di sicurezza e protezione.

Questa perdita può essere stata primaria (il bambino è stato abbandonato alla nascita e non ha avuto la possibilità di sviluppare una relazione di attaccamento con la figura materna) o secondaria (il bambino ha vissuto per un certo periodo con la mamma e ne è stato allontanato in seguito).

Ogni situazione è diversa dall’altra e le conseguenze di tali avvenimenti saranno più o meno gravi a seconda che il bambino abbia avuto o no la possibilità di instaurare un legame di attaccamento e di fiducia con la figura materna (o con altre figure primarie di accudimento).

Istituto

Egli inoltre può aver vissuto per un certo periodo in un istituto, ha perciò sperimentato relazioni basate sulla legge del più forte, che hanno sviluppato in lui la capacità di difendersi spesso con strumenti che risultano sproporzionati o inadatti in una diversa situazione sociale.

Il maltrattamento

Il bambino può essere stato sottoposto, da parte dei genitori, a un comportamento violento, gravemente trascurante, maltrattante e a volte abusante. Al bambino adottato il più delle volte, sono mancati gli abbracci, le cure, le coccole, il nutrimento, la pulizia: insomma gli è mancata la sicurezza di avere qualcuno che si prendeva cura di lui e ha dovuto, a un certo punto, contare solo su se stesso.

Si trova perciò solo e indifeso, in balia delle emozioni e dei vissuti difficili che porta con sé, senza aver acquisito una sufficiente fiducia in qualcuno, che gli permetta di sentirsi accolto e rassicurato.

C’è da notare che qualunque forma d’incuria o di trascuratezza, può per il bambino essere percepita come un evento minaccioso che può avere conseguenze per la sua sopravvivenza e si può configurare come una violenza e un trauma.

Questo potrà strutturarsi nella sua personalità con le caratteristiche di un disturbo post traumatico da stress, i cui sintomi possono essere vari e comprendono incubi, angoscia, giochi che riproducono gli avvenimenti traumatici, chiusura in se stessi, perdita delle capacità acquisite fino a quel momento.

Trascuratezza e maltrattamento si delineano perciò, nella vita di un bambino, come importanti fattori traumatici, con i quali i genitori adottivi dovranno fare i conti e che dovranno saper accogliere per dare una risposta efficace che permetta una evoluzione positiva e serena della personalità del minore.

L’adozione come trauma

La stessa adozione, anche se ciò può sembrare incomprensibile, può essere vissuta dal bambino come un ulteriore sconvolgimento nella vita del minore.

Egli attraverso l’adozione, infatti, perde definitivamente tutto ciò che, nel bene o nel male, costituisce la sua vita ed entra in una realtà sconosciuta, con persone sconosciute che devono diventare i suoi genitori.

Una volta arrivato in famiglia, il bambino vive la sensazione che tutto ciò che ha vissuto e che era prima, sia stato cancellato come da un colpo di spugna: odori, suoni, colori, riferimenti, ambiente di vita, amici, parenti, e, nel caso di adozioni internazionali, anche la lingua … gli rimangono il suo corpo e il suo nome.

E la memoria, che spesso contiene ricordi di avvenimenti che preferirebbe dimenticare.

Durante il primo periodo in famiglia, il bambino potrebbe vivere sentimenti di paura e di confusione, sentirsi disorientato e manifestare comportamenti di rifiuto o d’iperadattamento.

 Cosa possono fare i genitori

I genitori, per permettere al bambino di superare in modo favorevole queste esperienze dolorose, sono chiamati a potenziare le loro capacità di ascolto e saper accogliere tali vissuti nei confronti dei quali dovranno proporre efficaci strumenti riparativi.

Per mettere in atto tali comportamenti i genitori dovranno:

  • Essere per il figlio un aiuto e un sostegno nell’elaborazione del suo vissuto abbandonico, che andrà affrontato volta per volta con profondità diverse in base allo sviluppo e all’età del figlio.
  • Essere in grado di sostenere e tutelare il figlio e se stessi dai vissuti dolorosi che sia genitori che il bambino possiedono.
  • Saper infondere nel figlio sicurezza e fiducia in se stesso e nelle sue capacità. Saper creare un ambiente psicologico e relazionale accogliente e rassicurante nel quale il figlio possa nel tempo riuscire a ricostruire se stesso.
  • Accogliere e accettare il bambino per quello che realmente egli è, con il suo vissuto e con le sue caratteristiche di personalità. Fare spazio al bambino reale, abbandonando poco per volta il bambino immaginario e desiderato che ciascuno porta dentro di sé.
  • Sapersi sintonizzare sugli stati d’animo del figlio e aiutarlo a “riflettere” su se stesso e sulle proprie emozioni.

Se il bambino avrà la certezza che i suoi vissuti sono stati sufficientemente compresi e accolti dalle figure genitoriali, la relazione con loro avrà le caratteristiche della stabilità e le stesse crisi potranno diventare occasione di crescita e condurre a nuovi e più stabili equilibri.

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Adolescenza e adozioni

Un ragazzo adottato si trova a dover fronteggiare, durante il periodo dell’adolescenza, avvenimenti come l’abbandono e l’adozione, e su questi si sofferma per cercare di rielaborarli e integrarli nel nuovo sè che si sta costituendo.

Maggiore insicurezza

A questa età i ragazzi sentono la necessità di avere un certo controllo sulla loro vita, di sapere che attraverso i loro comportamenti e le loro scelte possono aver successo e riuscire nei loro obiettivi.

Acquisire questa sicurezza tuttavia per un ragazzo adottato non è facile: tutta la sua vita è stata determinata da scelte che altri hanno fatto per lui e sulle quali lui non ha avuto nessuna voce in capitolo, dall’abbandono da parte dei genitori biologici, alla scelta dell’adozione fino ad arrivare alla famiglia che li ha accolti.

Questa insicurezza può essere anche mascherata da un atteggiamento eccessivamente spavaldo, che spesso sconcerta e dietro al quale è talvolta difficile intravedere la fragilità e il bisogno di certezze.

Rielaborazione dei vissuti abbandonici

I ragazzi che sono stati adottati già grandini hanno facilmente sperimentato maltrattamenti, abusi, e hanno una maggiore diffidenza nei confronti del mondo adulto. Durante l’adolescenza i vissuti infantili riemergono e con essi le emozioni che li hanno accompagnati.

Anche chi è stato adottato da piccolo, tuttavia, deve confrontarsi con le problematiche adottive. Durante l’infanzia il bambino ha una concezione limitata del significato dell’adozione, perché gli mancano ancora le categorie mentali per inserire questo fatto in una cornice di senso compiuto.

Indipendentemente dal tipo e dall’accuratezza delle informazioni che gli sono state fornite quando era bambino, egli si trova durante l’adolescenza a dover rielaborare gli avvenimenti che gli sono accaduti per comprenderli con una lucidità e una consapevolezza che da bambino non possedeva.

Il bambino tende ad accettare ciò che gli viene detto dal genitore, formandosi uno schema mentale che ha le sue basi su ciò che egli gli dice. Può credere a Babbo Natale e alle slitte, anche se non ha mai visto una renna che vola, o alla religione che gli viene proposta perché glielo dicono mamma e papà, e così è per tutto ciò che compone la sua vita.

E’ solo quando cresce che inizia a pensare e a farsi delle idee personali sul mondo, sui valori che lo reggono e ciò che costituisce la sua vita. Inizia a mettere in dubbio tutto, dalla religione al modo di relazionarsi dei suoi genitori, perché deve costruire un modo di pensare al mondo personale e a rendersi autonomo dai genitori.

La famiglia

Nei confronti della famiglia i ragazzi adottati durante l’adolescenza vivono una forma di ambivalenza: da un lato vogliono e devono separarsi e affrancarsi dai genitori, da un altro sono ancora molto dipendenti dal clima e dalla relazione che hanno con loro.
Per un ragazzo che è stato abbandonato in fasi precoci della sua vita e ha vissuto in un ambiente dove la relazione con gli adulti era frammentaria e instabile, la costruzione di una personalità e di un sé solido è più difficile e porta con sè fasi di sofferenza profonda.
Verrà facilmente proiettato sui genitori il vissuto frammentario e inadeguato che loro hanno di se stessi, per esempio facilmente vissuti di rabbia che si fa fatica ad accettare in sè stessi vengono proiettati in loro, che vengono considerati colpevoli di una scarsa stima nei suoi confronti o vengono accusati di avere verso il ragazzo comportamenti eccessivamente aggressivi.

Può capitare anche che durante l’adolescenza i ragazzi, per potersi allontanare dai genitori, ricorrano ad atteggiamenti ribelli e oppositivi che sconcertano e diventano difficili da accettare e da gestire.
Egli vive inoltre con un senso di colpa nei confronti dei genitori la necessità di autonomia e di differenziazione.
Facilmente proietterà sulla famiglia adottiva problematiche non risolte, vissute nei confronti della famiglia biologica, e nello stesso tempo potrà sentirsi in colpa per questo tipo di pensieri nei confronti dei genitori, dai quali si è sentito accolto e amato.

Come tutti i ragazzi, l’adolescente adottato vive la contraddizione tra il bisogno di allontanarsi per cercare la propria identità in altri punti di riferimento esterni alla famiglia, e può vivere più degli altri la paura di offendere e deludere i genitori adottivi, perdendo i punti di riferimento e la relazione costruita spesso faticosamente in tanti anni di convivenza.

Nella relazione con i coetanei, il ragazzo adottato può essere molto più sensibile dei ragazzi della sua età, anche quando sono ben inseriti nel gruppo. Rifiuti, critiche possono metterlo in crisi, tende ad avere amici intimi con cui il rapporto è molto stretto perché ciò lo rassicura, può avere atteggiamenti seduttivi e cercare con i suoi comportamenti di attirare continuamente l’attenzione.

Atteggiamenti polemici con i professori o in casa, o scelte che preoccupano e sconcertano, possono essere lette anche come tentativi in tal senso. Inoltre il ragazzo adottato è spesso quello che si allontana da una relazione appena c’è un problema, per evitare di sentirsi rifiutato un’altra volta.

Un ragazzo adottato vive dunque l’adolescenza con maggiore complessità: egli sperimenta la tematica dell’identità personale con maggiore intensità, e si confronta con la paura della separazione, che riattiva sentimenti abbandonici mai del tutto risolti.

Riemergono vecchie problematiche

Si riattivano problematiche che sembravano risolte ed emergono nuove domande nella mente del ragazzo: A chi assomiglio? I miei fratelli biologici dove saranno? Parti del corpo e tratti di carattere vengono studiati e ingigantiti, e le domande sembrano senza fine e irrisolvibili: molte informazioni si sono perse, gli stessi genitori biologici non hanno risposte valide e definitive a queste domande.

Per gli adolescenti adottati da piccoli, quando non c’era ancora un’elaborazione mentale e una comprensione chiara della situazione, sono frequenti problematiche relative al proprio corpo, che viene vissuto come sproporzionato e inadeguato.

Quale risposta?

E’ necessario in questa fase che i genitori considerino la diversità della situazione e sappiano accettare che il figlio viva le problematiche legate alla sua età con vissuti specifici diversi da quelli dei suoi coetanei. E’ importante che i genitori non si sentano minacciati dal vissuto del figlio e dalle sue inquietudini, ma si mantengano sereni nella consapevolezza di una relazione conquistata e acquisita, anche se in continua evoluzione e crescita.

Questo atteggiamento permetterà al figlio di vivere ed esprimere i suoi vissuti senza doverli nascondere dietro comportamenti devianti o eccessivamente oppositivi. Appare indispensabile in questa fase curare la relazione col figlio senza irrigidirsi nelle proprie posizioni, mantenendo tuttavia saldi i principi e la trasmissione di valori, che andranno proposti al ragazzo (o alla ragazza) con fermezza e serenità, e aiutarlo a prendere la responsabilità di se stesso e delle proprie azioni.Cercasi famiglia adottiva

Quando chiedere aiuto

Generalmente i genitori adottivi non hanno difficoltà a chiedere aiuto in caso di bisogno. I vari colloqui per ottenere l’idoneità hanno abituato alla frequentazione degli psicologi, quindi non ci sono timori o remore ad incontrare i vari specialisti.

Ma quando si avverte che le cose non funzionano come dovrebbero, quando i comportamenti, le parole, le emozioni…denotano che c’è qualcosa che non va, innanzitutto si deve fare chiarezza sul problema, cioè capire  che tipo di difficoltà abbiamo di fronte.

I rischi, infatti, che si possono correre nella valutazione  sono sostanzialmente di due tipi: si sottovaluta il disagio che si sta vivendo e si lascia passare del tempo prezioso oppure “si leggono con gli occhiali dell’adozione” problemi di diversa natura che con l’adozione magari non c’entrano nulla.

 Quando ci si accorge che le cose non funzionano, si sente che non si recupera la serenità, si avverte che la fatica è per tutti eccessiva, allora vale la pena domandarsi se c’è bisogno di aiuto.  E’ necessario riconoscere il bisogno di essere sostenuti prima che insorgano problemi gravi.

Il bisogno di farcela da soli nel più genuino intento di sentirsi “come le altre famiglie”, spesso portano a condizioni di solitudine e fai-da-te che non giovano, anzi complicano le cose. Nessuno è colpevole della situazione, ma si è responsabili tutti insieme. Prima si corre ai ripari, più possibilità ci sono di recuperare le cose che non vanno. Ci si può rivolgere ai professionisti incontrati nel percorso adottivo, oppure a psicologi di fiducia. La terapia consigliata è quella familiare.

La famiglia adottiva in terapia familiare

Il bambino è incapace di dare senso e significato alle vicende che gli sono accadute nella vita. L’impossibilità di esprimere in maniera efficace il dolore che porta dentro di sé, dolore che perciò ha la caratteristica di essere intraducibile, come abbiamo visto lo può portare a sviluppare comportamenti inadeguati rispetto alla realtà esterna, ma per lui necessari (crisi di rabbia, depressioni, rifiuti).

Gli sfuggono i motivi che potrebbero aiutarlo a dare un senso a ciò che gli è accaduto. Egli inoltre non possiede una competenza linguistica e cognitiva, adatte a capire ed esprimere con pensieri e parole adeguate i suoi sentimenti. Il più delle volte penserà di essere responsabile di ciò che gli è accaduto. Penserà di essere cattivo e meritevole dell’abbandono e degli avvenimenti che gli sono capitati.

Quando il figlio adottivo attraversa la delicata fase dell’adolescenza con il suo carico di insicurezze e il bisogno di definire la sua identità, emergono altre dinamiche come quelle descritte in precedenza, che comportano altre problematiche da affrontare.

Se i genitori saranno stati in grado di elaborare in maniera adeguata il lutto della sterilità, inserendo quest’avvenimento doloroso in una cornice di senso, sapranno accogliere il vissuto del figlio e dare risposta al suo bisogno di capire il cosa e il perché gli sono accaduti determinati avvenimenti. E’ fondamentalmente di questo, infatti, che il bambino, ha bisogno.

Quando invece tra i genitori adottivi e il figlio adottato non si stabilisce un solido legame di attaccamento un’alta percentuale di figli adottivi manifesta aggressività verso i nuovi genitori, difficoltà a scuola e a volte comportamenti distruttivi e antisociali che mettono a dura prova la costruzione di un legame di fiducia.

Molte famiglie adottive giungono alla terapia familiare come a un’ultima spiaggia, in cerca di un lieto fine che sembra sfuggir loro di mano un passo alla volta. Molti di questi genitori e figli si somigliano vagamente tra loro: una mamma arrabbiata e delusa, che trasuda un senso di intima solitudine; un/una figlio/a che ostenta menefreghismo anche a fronte di situazioni oggettivamente delicate; un padre in disparte, spettatore più o meno interessato di un piccolo dramma familiare che pare riguardarlo fino a un certo punto.  

Il percorso di  terapia con la famiglia adottiva nel suo insieme può essere un fondamentale aiuto per uscire dall’empasse e superare le difficoltà e i conflitti che la famiglia si trova ad affrontare quotidianamente, perché permette a genitori e figli di esprimere pensieri e sentimenti, dubbi ed emozioni.

Ogni incontro rappresenta un’istantanea che illumina e mette a fuoco le relazioni nel momento del loro nascere, favorendo in chi le vive un atteggiamento consapevole nei confronti delle problematiche via via incontrate. 

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